Sara in Australia (first report)
23-05-2017 18:57 - Liceo Scientifico paritario
Riceviamo e pubblichiamo il racconto e alcune foto di Sara, una studentessa del Liceo San Gregorio Magno che per qualche proseguirà il suo corso di studi in Australia.
Scorgevo dall´oblò rotondo dell´aereo la nebbia fitta e il ghiaccio che coprivano le strade di Milano. Avevo gli occhi lucidi per le forti emozioni delle ultime ore, e strinsi al collo la sciarpa per ripararmi dalla forte aria condizionata.
Quel giorno freddo di fine gennaio cominciò la mia avventura. L´aereo mi avrebbe portato lontana dal mio paese, dalla mia famiglia e da tutto ciò che fino a quel giorno era stato parte della mia vita quotidiana. A pensarci mi veniva la pelle d´oca. Avevo paura, certo che avevo paura, ma come in tutti i viaggi che si intraprendono era viva in me la curiosità di sapere ciò che avrei trovato alla destinazione. Cosa ci sarebbe stato dall´altra parte del mondo ad aspettarmi?
Tirai fuori dal mio zaino le lettere che i miei amici mi avevano consegnato la sera prima, assicurandosi che le aprissi soltanto quando l´aereo fosse decollato. Riconobbi la calligrafia e le loro parole, scritte fitte su quelle pagine, mi diedero coraggio: "Sara siamo con te".
Le hostess asiatiche camminavano frettolosamente per il corridoio dell´aereo trasportando coperte pesanti, calzettoni, acqua e caffè per i passeggeri. Erano tutte alte e magre, i loro capelli scuri erano raccolti in uno chignon alto sul capo e un leggero trucco velava i loro occhi a mandorla.
Dopo qualche ora di viaggio ci portarono un vassoio con il pranzo. Il contenuto oscillava continuamente a causa delle turbolenze dell´aereo, e dovemmo stare attenti che non si rovesciasse. Beatrice, una delle exchange students che era seduta al mio fianco, fece una smorfia quando alzò la pellicola per sbirciare il contenuto del piatto. Le lasagne che ci servirono non avevano un aspetto molto invitante, ma d´altra parte fu un´occasione per fare una bella risata.
Fu un viaggio molto significativo per me, in quanto realizzai che non ero mai stata così tanto lontana da casa prima d´allora. "Adesso devo cavarmela da sola" pensai. Nonostante tutto era una bella sensazione.
Non facevo altro che pensare al piccolo paesino nella periferia di Sydney in cui avrei abitato per cinque mesi: Five Dock. Pensavo a come sarebbe stata la mia famiglia ospitante e che effetto avrebbe fatto andare in una scuola nuova, con studenti in uniforme e materie in inglese.
Il viaggio durò dodici ore. Riuscivamo a vedere il tratto percorso dall´aereo nel piccolo schermo che avevamo di fronte. Mezz´ora prima dell´atterraggio allacciammo ben strette le cinture e trattenemmo il fiato. L´aereo scese a poco a poco, e scorgemmo dall´alto le luci della città di Singapore. Vedemmo un fiume pieno di barche dalla forma allungata con lanterne rosse attaccate alle vele. Era l´alba, e il cielo era ancora scuro e solo lievemente sfumato dalle prime lievi luci. Una voce risuonò dai microfoni: "Ladies and gentlemen, we just landed in Singapore".
L´aeroporto era enorme e dentro di esso mi sentivo spaesata. Camminammo accanto a negozi di vestiti, cafè alla moda, palestre, piscine e luoghi benessere. Scorgevamo ristoranti indiani dai quali proveniva un forte odore di spezie e verdure cotte, banchi di pesce crudo avvolto nel riso, carne affumicata e tè dai diversi colori e aromi. C´erano alberi piantati nel terreno di fianco alle poltrone di attesa, vasche di pesci rossi, terrazze piene di girasoli e farfalle variopinte.
Dopo esserci fermati a fare colazione, salimmo su un bus alla volta del centro della città. Beatrice, seduta accanto a me, tirò fuori la sua macchina fotografica e iniziò a scattare foto del paesaggio che scorgevamo fuori dal finestrino. Una donna dalla pelle scura che indossava un vestito floreale ci faceva da guida parlando in inglese e spiegandoci nei dettagli la storia di Singapore.
La città era così diversa da quelle che avevo visto fino a quel momento! Gli alberi dal tronco spesso erano disposti in file ordinate ai lati della strada, sembrava quasi che fossero finti. Quando scendemmo dal bus realizzammo che i nostri vestiti pesanti erano inadeguati per quel clima caldo e umido. Il sole splendeva alto sul fiume il quale era attraversato da un ponte che congiungeva i due lati opposti di terraferma. Palazzi enormi si affacciavano su di esso, alti ed imponenti come non ne avevo mai visti prima, circondati dal verde degli alberi.
Non mi sembrava vero di essere lì, a Singapore, nel continente asiatico.
Eppure, anche se ero così lontana da casa, non mi sentivo sola ma parte di una squadra. Non avevo mai incontrato gli altri exchange students, ma sentivo che ad unirci c´era qualcosa di profondo: eravamo lì a condividere lo stesso viaggio. Non era solo un viaggio fisico, ma un cammino che avevamo deciso di intraprendere e che stavamo compiendo con tutti noi stessi accettando i rischi e le sfide che ne derivavano.
Guardavo i nostri cartellini appesi al collo con il nome e la nazionalità con cui venivamo riconosciuti in aeroporto, guardavo i nostri zaini pieni di documenti, libri, borracce d´acqua, dizionari di inglese e cuffiette per ascoltare la musica, guardavo i nostri occhi che luccicavano, anche se stanchi, sotto il sole di Singapore, e non potevo far altro che sorridere.
Quando tornammo in aeroporto cercammo di dormire accampati sul pavimento. Ero davvero stanca in quanto non dormivo da un giorno intero a causa delle turbolenze sull´aereo e le forti emozioni di quelle ultime ore. Mi sentivo eccitata e impaurita al tempo stesso. Guardavo dal grande finestrone dell´aeroporto gli aerei atterrare e decollare e cercavo di tenere a bada il caos che avevo dentro. C´erano momenti in cui avrei voluto piangere e in cui mi chiedevo "Ma perchè ho deciso di partire?", altri in cui ero piena di entusiasmo e non facevo altro che sorridere pensando alla grande avventura che mi aspettava.
Prima di imbarcarci ci diedero una lista di domande a cui rispondere, i controlli australiani sono infatti molto severi con gli immigrati da altri paesi. La maggior parte di esse riguardavano il contenuto dei nostri bagagli: se trasportavamo cibo, oggetti appuntiti o pericolosi.
Poi salimmo sull´aereo, e questa volta per arrivare alla vera destinazione.
Guardai le luci della città di Singapore dall´alto farsi sempre più piccole sotto di noi, avvolta nella pesante coperta che ci fornirono. Avevo nelle orecchie le cuffiette con una canzone dei Coldplay: "A sky full of stars". Presi il mio piccolo taccuino nero un po´ sgualcito, e cominciai a scarabocchiare sulle pagine. Adoro scrivere, in particolare poesie, poichè riesco a trasformare in parole ciò che provo, ciò che è radicato dentro di me più in profondità. "Come posso sentirmi a casa in un posto che non mi appartiene? Come posso sentirmi me stessa tra persone che non ho mai incontrato prima?".
Sebbene fosse dura tenere insieme i pezzi del mio passato in quella nuova avventura, ero fiera di essere lì. Avevo paura certo, avevo una paura matta. Ma come mi aveva detto mio nonno prima di partire, davanti al fuoco scoppiettante del camino: il coraggio non è non avere paura, ma superarla.
Che lo volessi o no, avrei dovuto tirare fuori le mie risorse e buttarmi a capofitto in quella nuova terra. Avrei dovuto essere forte e coraggiosa. Avrei dovuto fidarmi di persone che vivono dall´altra parte del globo rispetto al mio paese.
Le luci sul soffitto dell´aereo si accesero per annunciare l´atterraggio. I miei occhi erano ancora socchiusi e assonnati, ma mi tremavano le gambe per l´eccitazione.
Li vidi in lontananza, fianco a fianco, salutarmi con la mano. Jason era alto e con la pelle scura, aveva un grande sorriso sul viso e una faccia allegra. Veronica indossava un vestito smanicato a righe che risaltava sulla sua pelle olivastra, aveva capelli neri e occhi grandi e scuri. Mi avvicinai e mi abbracciarono con calore.
Avevo i capelli spettinati e sudati dopo il lungo viaggio, avevo le occhiaie e la faccia stanca a causa del jet-lag e le ore perse di sonno, eppure non mi ero mai sentita così felice e fiera di me.
Ero a Sydney. Là fuori da quelle porte c´era una città intera ad aspettarmi. Avrei visto l´Opera House e l´Harbour Bridge, avrei visto il cielo australiano di notte, le strade, i cartelli e le case di quel continente dalla parte opposta del mondo rispetto a casa mia. Avevo le lacrime agli occhi dalla felicità.
Guardai Jason e Veronica senza sapere bene cosa dire. Mi sorrisero e trasportammo insieme i bagagli fino alla macchina. Nel viaggio verso casa mi fecero alcune domande, e scoprii che dopo tutto con l´inglese me la cavavo bene. Ricordo che mi chiesero se avevo fame, e ci fermammo a mangiare in un Cafè che si affacciava sul fiume. Ricordo che ordinammo un pancake con avocado e un´insalata di funghi.
Ricordo la sensazione strana che provavo sulla pelle nel trovarmi lì. Mi sentivo come all´inizio di una gara di corsa, quando hai entrambi i piedi dietro la linea bianca di partenza e rimani concentrata e con i muscoli tesi aspettando il segnale. Avevo sei mesi davanti. Sarebbero stati forse i più difficili e pieni di sfide della mia vita fino a quel momento, ma anche quelli in cui sarei cresciuta diventando una ragazza matura e forte.
Ricordo che guidammo fino a casa e quando la vidi pensai che fosse del tutto diversa da come l´avevo vista su google earth, dalla scrivania della mia camera in Italia. Ricordo Olivia, Josh e Luke ad aspettarmi sulla porta, con lo sguardo furbo e incuriosito. In quel momento mi sentii parte di una famiglia.
Quel giorno freddo di fine gennaio cominciò la mia avventura. L´aereo mi avrebbe portato lontana dal mio paese, dalla mia famiglia e da tutto ciò che fino a quel giorno era stato parte della mia vita quotidiana. A pensarci mi veniva la pelle d´oca. Avevo paura, certo che avevo paura, ma come in tutti i viaggi che si intraprendono era viva in me la curiosità di sapere ciò che avrei trovato alla destinazione. Cosa ci sarebbe stato dall´altra parte del mondo ad aspettarmi?
Tirai fuori dal mio zaino le lettere che i miei amici mi avevano consegnato la sera prima, assicurandosi che le aprissi soltanto quando l´aereo fosse decollato. Riconobbi la calligrafia e le loro parole, scritte fitte su quelle pagine, mi diedero coraggio: "Sara siamo con te".
Le hostess asiatiche camminavano frettolosamente per il corridoio dell´aereo trasportando coperte pesanti, calzettoni, acqua e caffè per i passeggeri. Erano tutte alte e magre, i loro capelli scuri erano raccolti in uno chignon alto sul capo e un leggero trucco velava i loro occhi a mandorla.
Dopo qualche ora di viaggio ci portarono un vassoio con il pranzo. Il contenuto oscillava continuamente a causa delle turbolenze dell´aereo, e dovemmo stare attenti che non si rovesciasse. Beatrice, una delle exchange students che era seduta al mio fianco, fece una smorfia quando alzò la pellicola per sbirciare il contenuto del piatto. Le lasagne che ci servirono non avevano un aspetto molto invitante, ma d´altra parte fu un´occasione per fare una bella risata.
Fu un viaggio molto significativo per me, in quanto realizzai che non ero mai stata così tanto lontana da casa prima d´allora. "Adesso devo cavarmela da sola" pensai. Nonostante tutto era una bella sensazione.
Non facevo altro che pensare al piccolo paesino nella periferia di Sydney in cui avrei abitato per cinque mesi: Five Dock. Pensavo a come sarebbe stata la mia famiglia ospitante e che effetto avrebbe fatto andare in una scuola nuova, con studenti in uniforme e materie in inglese.
Il viaggio durò dodici ore. Riuscivamo a vedere il tratto percorso dall´aereo nel piccolo schermo che avevamo di fronte. Mezz´ora prima dell´atterraggio allacciammo ben strette le cinture e trattenemmo il fiato. L´aereo scese a poco a poco, e scorgemmo dall´alto le luci della città di Singapore. Vedemmo un fiume pieno di barche dalla forma allungata con lanterne rosse attaccate alle vele. Era l´alba, e il cielo era ancora scuro e solo lievemente sfumato dalle prime lievi luci. Una voce risuonò dai microfoni: "Ladies and gentlemen, we just landed in Singapore".
L´aeroporto era enorme e dentro di esso mi sentivo spaesata. Camminammo accanto a negozi di vestiti, cafè alla moda, palestre, piscine e luoghi benessere. Scorgevamo ristoranti indiani dai quali proveniva un forte odore di spezie e verdure cotte, banchi di pesce crudo avvolto nel riso, carne affumicata e tè dai diversi colori e aromi. C´erano alberi piantati nel terreno di fianco alle poltrone di attesa, vasche di pesci rossi, terrazze piene di girasoli e farfalle variopinte.
Dopo esserci fermati a fare colazione, salimmo su un bus alla volta del centro della città. Beatrice, seduta accanto a me, tirò fuori la sua macchina fotografica e iniziò a scattare foto del paesaggio che scorgevamo fuori dal finestrino. Una donna dalla pelle scura che indossava un vestito floreale ci faceva da guida parlando in inglese e spiegandoci nei dettagli la storia di Singapore.
La città era così diversa da quelle che avevo visto fino a quel momento! Gli alberi dal tronco spesso erano disposti in file ordinate ai lati della strada, sembrava quasi che fossero finti. Quando scendemmo dal bus realizzammo che i nostri vestiti pesanti erano inadeguati per quel clima caldo e umido. Il sole splendeva alto sul fiume il quale era attraversato da un ponte che congiungeva i due lati opposti di terraferma. Palazzi enormi si affacciavano su di esso, alti ed imponenti come non ne avevo mai visti prima, circondati dal verde degli alberi.
Non mi sembrava vero di essere lì, a Singapore, nel continente asiatico.
Eppure, anche se ero così lontana da casa, non mi sentivo sola ma parte di una squadra. Non avevo mai incontrato gli altri exchange students, ma sentivo che ad unirci c´era qualcosa di profondo: eravamo lì a condividere lo stesso viaggio. Non era solo un viaggio fisico, ma un cammino che avevamo deciso di intraprendere e che stavamo compiendo con tutti noi stessi accettando i rischi e le sfide che ne derivavano.
Guardavo i nostri cartellini appesi al collo con il nome e la nazionalità con cui venivamo riconosciuti in aeroporto, guardavo i nostri zaini pieni di documenti, libri, borracce d´acqua, dizionari di inglese e cuffiette per ascoltare la musica, guardavo i nostri occhi che luccicavano, anche se stanchi, sotto il sole di Singapore, e non potevo far altro che sorridere.
Quando tornammo in aeroporto cercammo di dormire accampati sul pavimento. Ero davvero stanca in quanto non dormivo da un giorno intero a causa delle turbolenze sull´aereo e le forti emozioni di quelle ultime ore. Mi sentivo eccitata e impaurita al tempo stesso. Guardavo dal grande finestrone dell´aeroporto gli aerei atterrare e decollare e cercavo di tenere a bada il caos che avevo dentro. C´erano momenti in cui avrei voluto piangere e in cui mi chiedevo "Ma perchè ho deciso di partire?", altri in cui ero piena di entusiasmo e non facevo altro che sorridere pensando alla grande avventura che mi aspettava.
Prima di imbarcarci ci diedero una lista di domande a cui rispondere, i controlli australiani sono infatti molto severi con gli immigrati da altri paesi. La maggior parte di esse riguardavano il contenuto dei nostri bagagli: se trasportavamo cibo, oggetti appuntiti o pericolosi.
Poi salimmo sull´aereo, e questa volta per arrivare alla vera destinazione.
Guardai le luci della città di Singapore dall´alto farsi sempre più piccole sotto di noi, avvolta nella pesante coperta che ci fornirono. Avevo nelle orecchie le cuffiette con una canzone dei Coldplay: "A sky full of stars". Presi il mio piccolo taccuino nero un po´ sgualcito, e cominciai a scarabocchiare sulle pagine. Adoro scrivere, in particolare poesie, poichè riesco a trasformare in parole ciò che provo, ciò che è radicato dentro di me più in profondità. "Come posso sentirmi a casa in un posto che non mi appartiene? Come posso sentirmi me stessa tra persone che non ho mai incontrato prima?".
Sebbene fosse dura tenere insieme i pezzi del mio passato in quella nuova avventura, ero fiera di essere lì. Avevo paura certo, avevo una paura matta. Ma come mi aveva detto mio nonno prima di partire, davanti al fuoco scoppiettante del camino: il coraggio non è non avere paura, ma superarla.
Che lo volessi o no, avrei dovuto tirare fuori le mie risorse e buttarmi a capofitto in quella nuova terra. Avrei dovuto essere forte e coraggiosa. Avrei dovuto fidarmi di persone che vivono dall´altra parte del globo rispetto al mio paese.
Le luci sul soffitto dell´aereo si accesero per annunciare l´atterraggio. I miei occhi erano ancora socchiusi e assonnati, ma mi tremavano le gambe per l´eccitazione.
Li vidi in lontananza, fianco a fianco, salutarmi con la mano. Jason era alto e con la pelle scura, aveva un grande sorriso sul viso e una faccia allegra. Veronica indossava un vestito smanicato a righe che risaltava sulla sua pelle olivastra, aveva capelli neri e occhi grandi e scuri. Mi avvicinai e mi abbracciarono con calore.
Avevo i capelli spettinati e sudati dopo il lungo viaggio, avevo le occhiaie e la faccia stanca a causa del jet-lag e le ore perse di sonno, eppure non mi ero mai sentita così felice e fiera di me.
Ero a Sydney. Là fuori da quelle porte c´era una città intera ad aspettarmi. Avrei visto l´Opera House e l´Harbour Bridge, avrei visto il cielo australiano di notte, le strade, i cartelli e le case di quel continente dalla parte opposta del mondo rispetto a casa mia. Avevo le lacrime agli occhi dalla felicità.
Guardai Jason e Veronica senza sapere bene cosa dire. Mi sorrisero e trasportammo insieme i bagagli fino alla macchina. Nel viaggio verso casa mi fecero alcune domande, e scoprii che dopo tutto con l´inglese me la cavavo bene. Ricordo che mi chiesero se avevo fame, e ci fermammo a mangiare in un Cafè che si affacciava sul fiume. Ricordo che ordinammo un pancake con avocado e un´insalata di funghi.
Ricordo la sensazione strana che provavo sulla pelle nel trovarmi lì. Mi sentivo come all´inizio di una gara di corsa, quando hai entrambi i piedi dietro la linea bianca di partenza e rimani concentrata e con i muscoli tesi aspettando il segnale. Avevo sei mesi davanti. Sarebbero stati forse i più difficili e pieni di sfide della mia vita fino a quel momento, ma anche quelli in cui sarei cresciuta diventando una ragazza matura e forte.
Ricordo che guidammo fino a casa e quando la vidi pensai che fosse del tutto diversa da come l´avevo vista su google earth, dalla scrivania della mia camera in Italia. Ricordo Olivia, Josh e Luke ad aspettarmi sulla porta, con lo sguardo furbo e incuriosito. In quel momento mi sentii parte di una famiglia.
Sara Pellacini
(11/05/2017)
(11/05/2017)

























